Quando non è applicabile la procedura delle dimissioni per fatti concludenti
La procedura delle dimissioni per fatti concludenti non è, minimamente, applicabile, secondo la circolare del Ministero del Lavoro n. 6/2024, in tutte quelle situazioni ove, la volontà di chi le presenta, deve essere convalidata, pena la nullità delle stesse, da un funzionario dell’Ispettorato territoriale del Lavoro, Quella che segue è una elencazione che comprende anche altre ipotesi non nominate nella circolare:
- a) “Dimissioni durante il periodo di gravidanza” (frase riportata nella circolare n. 6), che va inteso come “periodo protetto” intercorrente tra il concepimento ed il compimento di un anno di età del bambino. La medesima tutela riguarda il padre unico affidatario del bambino (perché la madre è morta, o gravemente ammalata o ha abbandonato il nucleo familiare). La stessa disposizione si applica ai lavoratori che hanno fruito, anche parzialmente, del congedo di paternità, previsto dal
D.L.vo n. 105/2022, tra il settimo mese antecedente il parto ed i tre mesi successivi;
- b) Dimissioni o risoluzione consensuale (rt. 55, comma 4, del D.L.vo n. 151/2001) del padre o della madre durante i primi tre anni di vita del bambino o nei primi tre anni di accoglienza del minore adottato o in affidamento o, in caso di adozione internazionale, nei primi tre anni decorrenti dalla comunicazione della proposta di incontro con il minore adottando, ovvero dalla comunicazione di recarsi all’estero per ricevere la proposta di abbinamento;
- c) Dimissioni della donna per causa di matrimonio (art. 35 del D.L.vo n. 198/2006 che riprende i contenuti già presenti nella legge n. 1204/1971) nel periodo compreso tra la richiesta di affissione delle pubblicazioni di matrimonio, nella casa comunale, in quanto segua la celebrazione, fino all’anno successivo alla stessa. La Cassazione, riformando alcune decisioni di merito, ha affermato, con la sentenza n. 28926 del 13 novembre 2018, che la limitazione alla donna non è da intendersi discriminatoria per l’uomo, in quanto la stessa intende valorizzare la natalità di cui la prima è portatrice.
Secondo tale interpretazione che estende (con forti perplessità) ad una fattispecie diversa, le tutele correlate alla nascita del bambino, al datore di lavoro che si trovasse di fronte ad una assenza ingiustificata non resterebbe che la strada del licenziamento, la quale, almeno per le donne nel periodo protetto, o per quelle nell’anno dal matrimonio, potrebbe essere, unicamente, quella, irta di difficoltà, delineata dall’art. 54, comma 3, del D. Lgs n. 151/2001
che fa riferimento alla “colpa grave, costituente giusta causa per la risoluzione del rapporto di lavoro”. Per i soggetti (uomini e donne) genitori di figlio di età compresa tra l’uno ed i tre anni, che sono fuori dal “periodo protetto del primo anno dalla nascita del bambino”, la via della risoluzione del rapporto va trovata nella disciplina contrattuale con la procedura di recesso per assenze ingiustificate che porta, comunque, al pagamento del contributo di ingresso alla NASpI.