1. I requisiti strutturali dell’uso aziendale
E’ noto che le aziende, in tempi di economia espansiva e di profitti, hanno usato accordare ai propri dipendenti – in un’ottica attrattiva e scoraggiante il passaggio ad altre aziende – condizioni migliorative della regolamentazione di base del rapporto di lavoro, poi mantenutesi ininterrottamente nel corso di anni.
In tempi di crisi, invece, una delle tentazioni più frequenti degli imprenditori è stata quella è stata quella del recupero o della soppressione delle concessioni (o delle acquisizioni informali da parte dei lavoratori) dei benefici spontaneamente accordati, a ciò spinti dalla necessità o scelta di riduzione del costo del lavoro, al fine di mantenersi concorrenziali sul mercato.
A titolo meramente esemplificativo, tali benefici si sono attualizzati nella veste di premi periodici di produttività aggiuntivi a quelli contrattuali collettivi, di gratificazioni una tantum (quali ad es. il decennale o il venticinquennale per la fondazione dell’azienda o per il raggiungimento di una certa anzianità di servizio), di polizze aziendali sanitarie o assicurative per invalidità o morte da malattia o infortuni (professionali ed extra), di riduzioni d’orario, di riconoscimento di festività aggiuntive, di incentivazioni all’esodo anticipato o al prepensionamento ovvero in veste di benefici di agibilità sindacale accordati alle Rsa in numero e con modalità eccedenti quelle legali o contrattuali.
Per fornire una risposta al quesito ipotetico, consistente nella domanda se i tentativi di revoca unilaterale siano o meno legittimi o se i trattamenti più favorevoli possano essere dismessi solo a seguito di contrattazioni aziendali che espressamente ne prevedano la caducazione esplicita (ovvero quella implicita per incompatibilità con la nuova disciplina collettiva aziendale); ovvero, ancora, per valutare se i trattamenti di miglior favore siano invece impermeabili (cioè insensibili) anche nei confronti della contrattazione collettiva (nazionale o aziendale) e quindi si mantengano sine die – o in perpetuo (come si usa dire) – è necessario delineare, preliminarmente, i vari orientamenti dottrinali e giurisprudenziali che si sono succeduti nel tempo in tema di “usi aziendali”.
Senza dilungarci nell’esame approfondito della distinzione tra “usi normativi” (presupponenti la c.d. opinio iuris ac necessitatis, cioè a dire il convincimento che il comportamento sia imposto al datore di lavoro da un obbligo legale) e “usi negoziali” o di fatto tra cui vengono fatti correttamente rientrare gli usi aziendali, – la cui rilevanza postula un atto di autonomia individuale – va detto che la prassi aziendale si forma in base alla diffusione a favore di una categoria o gruppo di lavoratori di benefici fondati sulla spontaneità datoriale (cioè a dire al di fuori di obblighi di sorta), e dietro reiterazione nel tempo in maniera tale da determinare nei lavoratori beneficiari la ragionevole aspettativa della loro continuità al sussistere delle condizioni (e dell’assetto normativo positivo in cui il beneficio è stato concesso e che ne ha costituito la premessa), questo accade anche in caso di errore perpetrato.
La continuità dei benefici addizionali fondati sull’ “uso aziendale” presuppone quindi le seguenti condizioni:
a) la spontaneità del comportamento datoriale (non compromessa da una eventuale adesione a sollecitazioni non vincolanti del personale o del sindacato), riscontrata a posteriori mediante l’accertamento dell’oggettiva assenza o inesistenza di un obbligo (reale o putativo) impositivo del comportamento in questione;
b) la reiterazione del comportamento nel tempo, tale da giustificare l’affidamento della continuità in capo ai dipendenti (o alla categoria o gruppo di personale) cui il beneficio è stato concesso;
c) la persistenza o invarianza dell’assetto normativo positivo (legale o contrattuale) o delle condizioni organizzative aziendali che hanno determinato originariamente la concessione liberale e che ne sono state il presupposto determinante.
2. Il pregresso orientamento della Cassazione fondato sul carattere negoziale interindividuale degli usi aziendali, riconducibili all’art. 1340 codice civile
Un vecchio orientamento (oramai abbandonato da parte della Cassazione) riconduceva i benefici (o trattamenti migliorativi addizionali) alla clausola d’uso ex articolo 1340 codice civile, con effetti di inserimento e d’integrazione del contenuto delle obbligazioni verso quei lavoratori nei cui confronti l’uso si era formato, senza estensibilità alla generalità dei lavoratori o ai nuovi assunti che in futuro si fossero trovati nelle stesse condizioni (cfr., Cassazione 24.5.1991, n. 5903; Cassazione 13.12.1986, n. 7483). L’uso aziendale determinava l’inserimento della clausola di miglior favore nei contratti individuali della ristretta cerchia dei lavoratori in servizio all’epoca in cui l’uso si era formato e si sarebbe mantenuto in perpetuo indipendentemente da contrarie pattuizioni di fonte collettiva.
Tale orientamento risultava espresso nella seguente massima: «Le erogazioni del datore di lavoro non imposte da legge, né dal contratto collettivo, né da espresse pattuizioni individuali devono considerarsi come facenti parte dell’ordinaria retribuzione se corrisposte continuativamente ad una generalità di dipendenti, atteso che esse – per effetto della prassi, anche se limitata ad una sola azienda – assumono la natura di emolumento dovuto per uso aziendale, riconducibile alla natura degli usi negoziali o di fatto, i quali debbono ritenersi inseriti (ex articolo 1340 c.c.) non già nel contratto collettivo (alle cui eventuali successive modifiche sono insensibili), ma – salva un’espressa volontà contraria delle parti – in quello individuale, di cui integrano il contenuto in senso modificativo o derogativo (“in melius” per il lavoratore) della contrattazione collettiva» (Cassazione, sezioni unite, 30.3.1994, n. 3134; Cassazione 28.4. 1988, n. 3220; Cassazione, sezioni unite, 17.3.1995, n. 3101).
Per la verità l’orientamento era contraddittorio: a) sia perché costretto, per coerenza giuridica, a limitare (in astratta teoria) i benefici o trattamenti migliorativi ai soli lavoratori in servizio all’epoca in cui l’uso aziendale era sorto, senza estendersi ai nuovi (o futuri) assunti (quando, invece, si sa che, in un’azienda, il potere gestionale datoriale, in un’ottica di coesione ed uniformità dei rapporti di lavoro, dilata di fatto i trattamenti migliorativi a coloro che in futuro si troveranno nella stessa condizione dei colleghi che li hanno preceduti); b) sia perché, argomentando sul piano dell’individuale, disconosceva una valenza collettiva all’uso aziendale, equiparabile, negli effetti, al regolamento d’impresa (di emanazione unilaterale datoriale ma con diffusività regolamentare collettiva) o al contratto aziendale (pur in assenza di un interlocutore antagonista); c) sia perché affermava, implicitamente o esplicitamente, l’irrevocabilità o l’immodificabilità dei trattamenti più favorevoli, i quali, per effetto della compenetrazione delle clausole d’uso nei contratti individuali, acquisivano impermeabilità nei confronti – e prevalenza sulle – fonti collettive per effetto del disposto dell’articolo 2077, 2° comma, cod. civ., che fa salve le condizioni più favorevoli dei contratti individuali, preesistenti o successivi, nei confronti dei contratti collettivi, sottraendo tali trattamenti più favorevoli alla dinamica della successione temporale delle fonti collettive, suscettibili di modificarli o di abolirli.
L’esigenza di sottrarre il carattere della “perpetuità” ai trattamenti più favorevoli discendenti da uso aziendale, ciò non di meno si faceva sentire e fu oggetto di una poco felice sentenza della Cassazione (n. 2406 del 12.3.1994) la quale ritenne di poter risolvere il problema legittimando il datore di lavoro alla “revoca novativa” del pregresso uso aziendale più favorevole, asserendo che: «…ove sopravvenga un nuovo comportamento contrario del datore di lavoro, protrattosi univocamente per anni senza manifestazioni di dissenso dei lavoratori interessati e delle organizzazioni sindacali, è configurabile la sostituzione dell’uso aziendale anteriore con quello successivo, benché meno favorevole, ossia una clausola nuova, inserita per fatti concludenti nei contratti individuali».