La sentenza 36362/2021 della Corte di cassazione ha messo in allarme gli amministratori di società che hanno in corso con le rispettive aziende anche un rapporto di lavoro. La pronuncia ha affermato l’impossibilità, al verificarsi di determinate condizioni, di aggiungere alla posizione di amministratore un contratto di lavoro subordinato, con tutti gli effetti fiscali e previdenziali della “cancellazione” del rapporto dirigenziale.

La pronuncia ha destato molto clamore, ma in realtà si è limitata a ribadire un principio già noto e consolidato nel nostro ordinamento, in quanto, già a partire dagli anni novanta (sezioni unite 10680/1994), la giurisprudenza ha iniziato a fissare i paletti da rispettare per far coesistere tali rapporti.

La sentenza 36362/2021 riguarda una vicenda di natura fiscale: l’agenzia delle Entrate ha recuperato a tassazione le spese sostenute nei confronti di due soci-amministratori, a titolo di lavoro subordinato, ritenendo mancanti le caratteristiche proprie di tale tipologia di rapporto, quali il potere direttivo, gerarchico e disciplinare. La Cassazione ha dato ragione all’Agenzia, sostenendo l’incompatibilità tra la qualità di lavoratore dipendente di una società di capitali e la carica di presidenza del consiglio di amministrazione o di amministratore unico della stessa, in quanto il cumulo nella stessa persona dei poteri di rappresentanza dell’ente sociale, di direzione, di controllo e di disciplina esclude in radice l’elemento della subordinazione.

Tale lettura ha messo in allarme tutti quegli amministratori che hanno con le società anche un rapporto di lavoro dirigenziale, per il concreto rischio che quest’ultimo venga disconosciuto, con l’effetto di vanificare tutta la storia previdenziale a esso associata.

Questo rischio esiste, ma non nasce dalla sentenza dello scorso mese di novembre. Secondo un consolidato orientamento giurisprudenziale, infatti, le due posizioni possono convivere, ma a patto che abbiano determinate caratteristiche. La stessa pronuncia 36362 ritiene compatibile la qualità di amministratore di una società di capitali con la qualifica di lavoratore subordinato, laddove sia accertato in concreto lo svolgimento di mansioni diverse da quelle proprie della carica sociale rivestita, con l’assoggettamento a un effettivo potere di supremazia gerarchica e disciplinare.

Un concetto simile si trova più volte nella giurisprudenza precedente della Cassazione. Tra le tante, la sentenza 9273/2019 ha precisato che è cumulabile la carica di amministratore e di lavoro subordinato della stessa società di capitali a condizione che «colui che intenda far valere il rapporto di lavoro subordinato fornisca la prova del vincolo di subordinazione».

Tali criteri sono stati sintetizzati nel messaggio Inps 3359/2019, che evidenzia che la compatibilità tra la posizione di amministratore di società di capitali e attività di lavoro subordinato in presenza di alcune condizioni (potere deliberativo affidato a un organo collegiale, rigorosa prova del vincolo di subordinazione, mansioni estranee al rapporto organico).

La sentenza 36362/2021 non afferma, quindi, un principio nuovo, ma si limita a riproporre un concetto già ampiamente presente nel nostro ordinamento: è possibile la coesistenza della posizione di amministratore e dirigente in capo alla stessa persona, a patto che il dirigente non sia “dipendente di se stesso”. Le società devono quindi, oggi come ieri, prestare attenzione a questo aspetto, verificando se il concreto pacchetto di deleghe dell’amministratore da un lato, e le mansioni del dirigente dall’altro, sono bilanciate in modo da rispettare questi parametri.