Questo argomento è già stato trattato in questa sezione poche settimane fa, ma tutti eravamo in attesa di vedere le motivazioni della CORTE COSTITUZIONALE, di quella che potrebbe essere la più grande bufala del contratto a tutele crescenti (assunzioni dopo il 3/2015).
Lo scorso 8 novembre sono state finalmente pubblicate le motivazioni della sentenza n. 194/2018, che ha pronunciato l’incostituzionalità dell’articolo 3, D.Lgs. 23/2015, nella parte in cui prevede(va) la parametrazione dell’indennità in caso di licenziamento illegittimo al solo criterio dell’anzianità di servizio.
Come prevedibile, la Corte ha sostanzialmente confermato quanto finora si era detto sulle conseguenze della pronuncia, ovvero il ritorno alla parametrazione del danno a quelli che erano i “classici” (ma estremamente ambigui) criteri e, quindi, all’anzianità del lavoratore sì, ma accompagnata dalle dimensioni aziendali, dal numero di dipendenti occupati, dal comportamento delle parti. Tali criteri, secondo la Consulta, sarebbero infatti “desumibili in chiave sistematica dalla evoluzione della disciplina limitativa dei licenziamenti”.
Secondo le motivazioni addotte dalla Corte, quindi, legare l’indennità alla sola anzianità di servizio rende il risarcimento non congruo ai sensi all’articolo 24, Carta sociale europea. La Corte Costituzionale si è rifatta a quell’indirizzo, ormai consolidato, del Comitato europeo dei diritti sociali, secondo cui “l’indennizzo è congruo se è tale da assicurare un adeguato ristoro per il concreto pregiudizio subito dal lavoratore licenziato senza un valido motivo e da dissuadere il datore di lavoro dal licenziare ingiustificatamente” e ha dichiarato che “l’art. 3, comma 1, del d.lgs. n. 23 del 2015, nella parte appena citata, prevede una tutela economica che non costituisce né un adeguato ristoro del danno prodotto, nei vari casi, dal licenziamento, né un’adeguata dissuasione del datore di lavoro dal licenziare ingiustamente” e che “la disposizione censurata comprime l’interesse del lavoratore in misura eccessiva, al punto da risultare incompatibile con il principio di ragionevolezza. […] risulta evidente che una siffatta tutela dell’interesse del lavoratore alla stabilità dell’occupazione non può ritenersi rispettosa degli artt. 4, primo comma, e 35, primo comma, Cost., che tale interesse, appunto, proteggono”.
Interessante, inoltre, che fra le righe della motivazione è sostanzialmente dato leggere che la Corte, nonostante abbia contestualmente affermato che le modalità di attuazione dei principi costituzionali spettino al Legislatore – il quale potrebbe, per assurdo, anche legittimamente eliminare la tutela reale in favore di un’esclusiva tutela obbligatoria – abbia poi comunque censurato nel merito (il quantum) lo stesso Legislatore ritenuto competente, facendo ripiombare il diritto del lavoro (quantomeno per gli assunti dopo il 7 marzo 2015) nella consueta incertezza del diritto.